Otto ore non bastano: storia di una conquista operaia e critica del lavoro salariato

Immagine disegnata in vecchio stile con scritto "8 ore per lavorare, 8 ore per riposare, 8 ore per fare quello che vogliamo"

La conquista della giornata lavorativa di otto ore non è il frutto della bontà delle istituzioni, ma il risultato di decenni di conflitto. In Italia, questo traguardo arriva formalmente nel 1923, ma le sue radici affondano in una lunga stagione di lotte che parte ben prima dell’unità nazionale e attraversa il cuore del Novecento. Parlare di 8 ore significa parlare di scioperi, occupazioni, repressioni, ma soprattutto di “organizzazione autonoma della classe operaia”.

La violenza quotidiana del lavoro salariato

Prima della conquista delle 8 ore, le giornate lavorative di 12, 14 e perfino 16 ore erano la norma, soprattutto nelle fabbriche tessili e metalmeccaniche. Operai e operaie — spesso giovanissimi — lavoravano in ambienti saturi di polveri, fumi, rumori assordanti, tra macchinari scoperti e senza protezioni, dove la perdita di arti, le mutilazioni, le ustioni e gli incidenti mortali erano quotidiani. Non esistevano assicurazioni, né diritto al risarcimento: l’infortunio era colpa del lavoratore, e significava fame, disoccupazione o mendicità. Questa brutalità non era una deviazione, ma l’essenza del rapporto salariale: estrarre il massimo in fretta, a ogni costo. Per questo la lotta per le 8 ore era anche lotta per vivere, per sottrarre tempo e corpo al macello produttivo.

Già alla fine dell’Ottocento, nelle grandi città industriali del Nord — Milano, Torino, Genova — nascono le prime rivendicazioni precise: “otto ore di lavoro, otto di riposo, otto di vita”. È un grido che esplode nelle officine e nelle manifatture, dove si lavora spesso 12-14 ore al giorno. Le prime forme di organizzazione operaia erano “leghe di mestiere”, spesso circoscritte a un territorio o a un settore: tessili, metallurgici, falegnami, tipografi, ecc. Erano strutture locali, nate spesso dal mutuo soccorso, ma che presto si trasformarono in “strumenti di lotta salariale e politica”.

Dalle leghe alle Camere del Lavoro: l’autonomia operaia si organizza

Nel passaggio cruciale tra Otto e Novecento, queste leghe iniziano a coordinarsi. Nasce così la “prima Camera del Lavoro a Milano nel 1891”, seguita da quella di Torino nel 1899 e molte altre in tutta Italia. Le Camere del Lavoro non sono semplici sedi sindacali: sono “centri politici di organizzazione della classe operaia”, in cui si intrecciano rivendicazioni economiche, assistenza sociale, alfabetizzazione e solidarietà. Ogni Camera rappresentava “decine o centinaia di leghe locali”, spesso articolate per settore produttivo — in particolare il “tessile”, che impiegava una grande massa di manodopera femminile e giovanile, e il nascente “comparto metalmeccanico”, in rapida espansione. In esse si coordinavano le lotte contro le condizioni di lavoro disumane, le giornate interminabili, i salari da fame. La loro funzione non era solo sindacale, ma “sociale e politica”: organizzare scioperi, creare reti di solidarietà, educare e politicizzare le masse lavoratrici. In molte città industriali, la Camera del Lavoro diventava “la controparte reale del potere locale”. Era il luogo dove si decidevano vertenze, si pianificavano scioperi generali, si affrontavano temi come la disoccupazione, l’emigrazione, l’abuso padronale. Questo sistema federale, decentrato, ma fortemente radicato nei territori, anticipa in molti aspetti l’autonomia operaia degli anni successivi. Un momento chiave arriva nel 1906, con la nascita della “Confederazione Generale del Lavoro (CGL)”, che nasce proprio come “federazione nazionale delle Camere del Lavoro”, delle leghe e delle società di mutuo soccorso. È in questo quadro che si pongono le prime rivendicazioni generali sulla riduzione dell’orario, culminate nei contratti collettivi dei metallurgici e nei cicli di lotta che precedettero il Biennio Rosso.

Lotte, conquiste e controrivoluzioni

Tuttavia, è nel “Biennio Rosso (1919-1920)” che la rivendicazione delle 8 ore diventa una forza materiale. Dopo la Prima guerra mondiale, le condizioni di vita sono durissime. Ma è anche un momento di altissima mobilitazione: scioperi, cortei, assemblee nei luoghi di lavoro. A Torino, Milano, Napoli, gli operai si auto-organizzano nei “Consigli di fabbrica”, ispirati dalla rivoluzione russa. Non aspettano le leggi: iniziano a “imporre orari ridotti” con la forza della lotta, bloccando le linee e occupando le fabbriche.  Nel settembre del 1920, durante l’”occupazione delle fabbriche” — oltre 500.000 lavoratori coinvolti — la Fiat e molte altre industrie del Nord sono di fatto gestite dagli operai. Le 8 ore sono praticate, non solo richieste. Il padronato e lo Stato reagiscono con timore: si temeva una rivoluzione. Per frenare la spinta, il governo accetta la mediazione. Il 10 marzo 1923 viene emanato il “regio decreto 692”, che introduce ufficialmente la “giornata lavorativa di otto ore”. Ma nel frattempo, il fascismo prende il potere, scioglie i sindacati e reprime l’autonomia operaia. La conquista viene neutralizzata dal regime: le 8 ore diventano una concessione calata dall’alto, non più una forza dal basso.

 Il tempo di lavoro come tempo di dominio: Marx e la legge del plusvalore

Nell’analisi di “Karl Marx”, la giornata lavorativa è il cuore dello “sfruttamento capitalistico”. Nel “Libro I de “Il Capitale””, Marx distingue tra “lavoro necessario” — quello che serve al lavoratore per riprodurre se stesso (cioè per guadagnarsi quanto basta per vivere) — e “pluslavoro”, che è il tempo che eccede il necessario e “produce valore per il capitalista senza essere retribuito”. È proprio da questo pluslavoro che nasce il “plusvalore”, ossia il profitto. Il capitalista compra la forza-lavoro per un’intera giornata, ma il suo valore d’uso (cioè la capacità di produrre) è ben superiore a quanto paga in salario. Se, per esempio, in 4 ore il lavoratore produce valore sufficiente a coprire il proprio salario giornaliero, le restanti ore (4, 6, 8 o più) “sono pluslavoro puro”, estratto senza compenso.

Scrive Marx:

 “Il capitale ha una sola tendenza: allungare la giornata lavorativa oltre i limiti del tempo di lavoro necessario, appropriandosi del pluslavoro, aumentando così il plusvalore.”

Marx, Il Capitale, Libro I, cap. 10

Per questo motivo, la lotta per la riduzione dell’orario non è una questione “tecnica”, ma un “atto di resistenza materiale alla logica del capitale“. Limitare la giornata lavorativa significa “porre un freno alla produzione di plusvalore”, cioè al processo stesso di accumulazione. Marx mostra anche come storicamente, ogni riduzione dell’orario sia stata “strappata con la forza”, mai concessa volontariamente: “Ogni limite all’orario di lavoro viene denunciato come un attentato alla proprietà, alla libertà e alla libera concorrenza”.

La storia di questa conquista è da inserire nella “traiettoria storica di lotta contro il lavoro salariato”. Il lavoro, nella società capitalista, non è una fonte neutra di reddito: è il “mezzo con cui il capitale estrae valore dalla vita“, controlla i corpi, disciplina i tempi. I movimenti operai più radicali, dagli anni ’60 in poi, mettono in discussione proprio questo fondamento. Il rifiuto del lavoro non è pigrizia, ma “desiderio di liberazione”, di rottura con il ricatto del salario. Il “tempo liberato” dalle 8 ore non basta: va “espanso, sottratto alla produzione”, non per produrre altro, ma per “vivere”.

Oggi questa conquista è sotto attacco. Il tempo di lavoro reale supera spesso le 8 ore, mascherato da straordinari, part-time involontari, turni spezzati. Il lavoro invade i sabati, i telefoni, la mente. La precarietà e la digitalizzazione hanno “frammentato il tempo”, rendendo difficile anche solo riconoscerlo come diritto. Ma non è solo una questione quantitativa. L’intensità è aumentata: lavoriamo di meno, ma più in fretta, con più ansia, più isolamento.

Le lotte odierne — per il reddito di base, contro l’alienazione digitale, per la settimana corta — non sono nostalgiche, ma radicali: riprendono la critica del lavoro salariato come “forma di dominio”.

Bibliografia essenziale:

  • Karl Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, Libro I, Editori Riuniti, Roma, 1974, Capitoli 10 e 11 sulla giornata lavorativa, lavoro necessario e plusvalore.
  • Giovanni Levi – Jean-Claude Schmitt (a cura di), Storia dei lavoratori in Italia, vol. 1-3, Einaudi, Torino, 1987
  • Giovanni De Luna, Il Biennio Rosso, Feltrinelli, Milano, 1988
  • Luigi Cortesi, Il sindacato e la conquista delle otto ore, in Storia del movimento sindacale in Italia, Editori Riuniti, Roma, 1977
  • Marco Revelli, Le due destre. Le derive autoritarie del neoliberismo, Bollati Boringhieri, Torino, 1996
  • Quaderni Rossi, n. 1-6 (1961–1966)
  • Mario Tronti, Operai e capitale, Einaudi, Torino, 1966
  • Vincenzo Bavaro, Le Camere del Lavoro in Italia (1891–1924), FrancoAngeli, Milano, 1982
  • Federico Romero, Gli Stati Uniti e le origini del Primo Maggio, in “Passato e Presente”, n. 9, 1986